giovedì 26 febbraio 2009

L'introduzione di Fausto Biloslavo per "Afghanistan, ultima trincea"


Gian e Fausto davanti ad una postazione dei mujaheddin nella valle di Giagni nel settembre 1983

I proiettili fischiavano dappertutto, ma Jalaluddin Haqqani sembrava non farci caso. Nella valle afghana di Urgun, vicino al confine pachistano, un fortino dimenticato dei governativi veniva bersagliato dai mujaheddin. Mulawi Haqqani, barbone nero, occhi di pece, turbantone pasthun e mitra catturato ai sovietici a tracolla guidava l’attacco. In piedi, in mezzo alla baraonda della battaglia, spiegava a tre giornalisti, appiattiti a terra tra la pioggia di pallottole, come avrebbe cacciato l’Armata Rossa dall’Afghanistan. Nel 1983 Haqqani era un beniamino della Cia finanziato dai paesi arabi. Un quarto di secolo dopo il leggendario comandante combatte ancora. Con il figlio Sirajuddin è uno dei nemici più temibili della Nato nel disgraziato paese al crocevia dell’Asia. Dalla sua base nella zona tribale pachistana è accusato di aver organizzato i più clamorosi attentati del 2008. Come l’attacco suicida al Serena, l’hotel a cinque stelle di Kabul e il tentativo di far fuori il presidente afghano Hamid Karzai a fine aprile.


Ad Urgun, nel 1983, Almerigo Grilz, Gian Micalessin, ed io abbiamo vissuto il nostro battesimo del fuoco. L’inizio di una vita spericolata con il giornalismo di guerra nel sangue. Non potevamo saperlo, ma questo libro è nato in quel primo reportage in Afghanistan, nell’estate di venticinque anni fa. Almerigo ci ha lasciato ucciso in Mozambico il 19 maggio 1987, mentre filmava una battaglia fra ribelli e governativi. Gian ed io abbiamo voluto tornare assieme in Afghanistan, lo scorso agosto. Non più travestiti da afghani entrando clandestinamente dal Pakistan con i mujaheddin anti sovietici. Questa volta siamo tornati dall’altra parte della barricata, quella della Nato. Appesantiti dai giubbotti antiproiettile, dagli elmetti e un po’ dall’età. In prima linea come sempre: al fronte più a sud, con i marines e poi nei fortini dei soldati italiani.

Gian e Fausto durante un guado durante il primo reportage del 1983.

“Afghanistan ultima trincea”, di Gian Micalessin, non è solo la storia di una guerra trentennale. E’ la storia dei ragazzi, americani e italiani, che oggi combattono sputando sangue e sudore è la storia degli afghani, semplici miliziani o comandanti leggendari, tagliagole e disgraziati civili, che abbiamo incontrato.
“Afghanistan ultima trincea” è anche la nostra storia, iniziata 25 anni fa, a Trieste, con l’Albatross Press Agency un’agenzia di scapestrati free lance. Volevamo girare il mondo, raccontare i conflitti e guadagnarci la pagnotta. Almerigo vendeva libri, Gian consegnava rotoli di carta igienica ed io alzavo la sbarra ad un campeggio di Grado. Il nostro unico scopo era raccogliere un piccolo gruzzolo e partire per l’Afghanistan. Il paese invaso dall’Armata Rossa ci aveva fatalmente attratto, come il Vietnam fece con la generazione precedente di inviati di guerra.


Gian stremato da fame e dissenteria al termine
del primo reportage nel settembre 1983

Nel 1983, quando il portellone dell'aereo atterrato a Karachi si spalanca veniamo investiti da una terribile afa, che ci toglie il fiato. E' il benvenuto in Pakistan. Dalla città portuale prendiamo un treno che porta ancora gli stemmi britannici della regina Vittoria. Inizia così un viaggio nel passato, con i pakistani ammassati sui tetti delle carrozze trainate da una locomotiva sbuffante a vapore, che avanza nelle zone aride del sud.
A Peshawar, crocevia di mujaheddin e spie vicino al confine con l'Afghanistan, il caldo è torrido. L'albergo che ci possiamo permettere, in compagnia degli scarafaggi che lo infestano, ha un'inutile pala coloniale come ventilatore.
Dopo innumerevoli contatti clandestini, preghiere e arrabbiature, i mujaheddin si convincono a portarci oltre confine. L'unico sistema è vestirsi come loro, con tanto di turbante in testa. Seguendo una colonna di muli, carichi di armi e munizioni, passiamo in piena notte il sonnolento posto di frontiera di Turi Mangal. Attraversando cupe foreste incendiate dalle cannonate non capiamo se stiamo vivendo un incubo o un sogno. Siamo finalmente in Afghanistan, ma non sarà una vacanza. Abbiamo davanti centinaia di chilometri a piedi e talvolta a cavallo, fra i monti e pietraie afghane, dove il caldo soffocante di giorno ed il gelo di notte ti fanno schiattare. Per portare a casa la pelle ed il servizio, fra assalti dei mujaheddin e bombardamenti sovietici, vale un solo motto: marcia o muori.


Gian durante il reportage con i marines agosto 2008

"Why not?", perché no, ripete sempre Almerigo anche nelle situazioni più difficili, anche quando, a Giagni, veniamo sorpresi da un improvviso attacco aereo sovietico con elicotteri e caccia, che piombano da tutte le parti. Mentre le alte colonne di fumo si alzano dalle esplosioni lui riprende tutto, in piedi tra le esplosioni. Lo spostamento d'aria provocato dallo scoppio di una bomba rischia di travolgerlo,
ma il filmato andrà in onda in prima serata sulla tv americana Cbs.
"Why not" ci ha portato a viaggiare in mezzo mondo raccontando le guerre, anche dopo avere perso Almerigo, una parte di noi.
L’Afghanistan ti rimane nel cuore o lo cancelli dalla memoria. Venticinque anni dopo Gian ed io ci siamo tornati assieme, come in un anniversario non scritto. Questa volta utilizzando gli elicotteri come taxi per raggiungere gli avamposti dei marines nella provincia di Helmand. Poi, però, quando ti ritrovi a scarpinare a piedi con le pattuglie di ragazzotti venuti da oltreoceano, vale sempre il vecchio motto: marcia o muori. I marines sono addestrati ad uccidere, ma di piastrine di riconoscimento ne portano due. Una al collo e una fra i lacci degli stivali da deserto. “Così se saltiamo su una trappola esplosiva riconoscono i pezzi del nostro corpo” spiega uno di loro.
“Afghanistan, ultima trincea” racconta un conflitto spietato, dove l’unica arma decisiva è conquistare i cuori e le menti degli afghani.

Nel mare di sabbia dell’Afghanistan occidentale abbiamo navigato a bordo dei “mostri”, come i talebani chiamano i “ Lince” dei nostri corpi speciali. Legato come un pilota di Formula Uno ti spezzi la schiena, ma sono blindati “salvavita” se finisci in un’imboscata o pesti una mina. Nel fortino di Bala Mourghab i soldati italiani ci raccontan ole battaglie combattute con le unghie e con i denti per difendere i ruderi di un ex cotonificio. Prima di loro c’erano stati i sovietici e la leggenda vuole che siano finiti sgozzati.
Questo libro racconta la guerra degli italiani, una guerra che fino ad oggi era un tabù. Per troppo tempo ci hanno raccontato un Afghanistan dove i nostri soldati distribuivano caramelle ai bambini. Invece i nostri ragazzi combattono una guerra, nel nome di una missione di pace. “Afghanistan ultima trincea” racconta questa verità nascosta sulla quale solo ora si apre uno spiraglio. Grazie all’accesso alla prima linea concesso dal Ministero della Difesa, dopo anni di notizie ovattate. Una verità che va raccontata agli italiani per spiegare cosa ci facciamo laggiù. E comprendere l’impegno ed il sacrifico dei nostri soldati. Dalla ridotta di Delaram, quando la torretta più alta, dove sventola il tricolore, viene investita dallo spostamento d’aria del primo razzo che piomba a una cinquantina di metri. Al caporal maggiore di Caserta, che nel fortino sotto attacco di Bala Mourghab si attacca alla mitragliatrice Browning. E spara a raffica contro i talebani nel suo battesimo del fuoco. Fino ai piloti degli elicotteri d’attacco Mangusta che piombano dal cielo come falchi, ma pensano due volte prima di tirare il grilletto.
“Afghanistan ultima trincea” è un libro lungo 25 anni, su una guerra apparentemente senza fine.
Dicembre 2008

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