lunedì 12 aprile 2010


lunedì 12 aprile 2010

Helmand, la provincia dove anche i militari trattano con i talebani

di Gian Micalessin
I tre italiani sono stati arrestati per collusione con i terroristi Ma un generale inglese sostiene che negoziare con loro è inevitabile
«Il negoziato qui è solo questione di tempo, non certo di principio». L’ultimo a dirlo - a gennaio - non è stato Gino Strada, ma il comandante dell’esercito britannico generale sir David Richard spiegando l’inevitabilità - per chi opera nella provincia di Helmand - di negoziare con i talebani. Detto questo, c’è modo e modo di trattare. Emergency - grazie alla disinvoltura con cui mescola spregiudicate attività di denuncia politica e lodevole attività sanitaria – offre più di un pretesto a quanti definiscono autentica collusione i suoi rapporti con i talebani. Certo a Helmand i contatti con gli insorti sono assolutamente all’ordine del giorno. In quella provincia, considerata il cuore della produzione di oppio, non arriva fino al 2006 un solo soldato della Nato. Approfittando di quell’assenza i talebani la trasformano nel trampolino per il ritorno nel Paese.
Le ragioni della scelta sono evidenti. Dopo la sconfitta del 2001 il mullah Omar e quel che resta della dirigenza talebana si riorganizzano intorno alla città pakistana di Quetta, appena a sud del confine con Helmand. A Quetta continua a riunirsi, da allora, la shura (assemblea) talebana che decide le campagne militari e manovra i traffici di droga e armi. E visto che l’oppio è fondamentale per i rifornimenti di armi Helmand diventa il vero Bengodi talebano. Nel 2006 70mila dei 165mila ettari di terreno coltivati a oppio di tutto l’Afghanistan si trovano in quella provincia. «Il raccolto da record di Helmand - scrive quell’anno il Guardian - evidenzia il fallimento delle politiche anti-narcotici occidentali costate due miliardi di dollari dal 2002».
La conformazione della provincia, un dito oblungo che dalla frontiera pakistana raggiunge il cuore dell’Afghanistan, è fondamentale anche per infiltrare armi e uomini nel Paese. Grazie a tutto ciò Helmand diventa il santuario della rinascita talebana. Lì nel 2006 gli insorti scannano 85 maestri e studenti e bruciano 187 scuole. Lì l’anno successivo viene tenuto prigioniero il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo e vengono sgozzati i suoi collaboratori afghani. In quel caposaldo integralista tutti, dall’ultimo coltivatore d’oppio fino ai più importanti capi tribù, sono legati ai talebani e ai loro traffici. Sher Mohammed Akhundzada, il governatore responsabile della provincia fino a quando gli inglesi non ne pretendono le dimissioni, non fa differenza. Amico e alleato del presidente Karzai fin dai tempi dell’invasione sovietica il governatore è un temibile signore della guerra coinvolto nel traffico d’oppio e in decine di sanguinose faide e vendette. Ma è anche il perfetto capo tribù afghano, un leader corrotto e spregiudicato pronto a combattere i talebani con i loro stessi sistemi e a negoziare con loro ruoli e competenze territoriali. Così quando nel 2006 i soldati inglesi della Nato sbarcano nel nord la situazione si rivela completamente fuori controllo.
Il tentativo di assumere il controllo della provincia con la forza si dimostra inutile e costa ai britannici 270 morti in quattro anni di duri combattimenti. Neppure la poderosa doppia offensiva lanciata grazie all’intervento dai marines nel 2008 e nel 2009 riesce a garantire il controllo della provincia. «Questo è un territorio impossibile, dove fino a quando non ti sparano addosso non sai mai quali siano gli amici e quali i nemici», mi spiegava nel 2008 il capitano Sean Dynan al comando di una compagnia di marines impegnata nel sud di Helmand. E gli ufficiali britannici, come il colonnello Alan Richmond comandante di un’unità nel distretto di Garmsir, sono i primi ad ammettere che i contatti con i talebani sono assolutamente all’ordine del giorno. «Nelle shure di villaggio a cui ho partecipato c’erano sicuramente dei talebani, sono sicuro - ricordava il colonnello in un’intervista - di essermi seduto accanto a loro più di una volta».

lunedì 29 marzo 2010

AFGHANISTAN, ULTIMA TRINCEA
La sfida che non possiamo perdere
di Gian Micalessin
Introduzione e contributi di Fausto Biloslavo
Boroli Editore - 190 pagine - € 14



La Nato sarà in grado di portare a termine la sua missione in Afghanistan? L’America di Barak Obama riuscirà a ribaltare le sorti del conflitto? Siamo ancora in tempo per riconquistare la fiducia di un popolo e bloccare il ritorno dei talebani? Che guerra combattono i nostri militari, quali rischi corrono?
Per rispondere a questi interrogativi due inviati italiani tornano in Afghanistan, 25 anni dopo il loro primo reportage al fianco dei guerriglieri anti sovietici. Ma il punto di vista -in questo libro scritto da Gian Micalessin grazie anche ai contributi di Fausto Biloslavo - è diverso. I due inviati visitano gli avamposti dei marines nella provincia di Helmand, raccontano le loro battaglie, li seguono nei villaggi dove si nascondono i talebani e dove i militari americani sperimentano tattiche e strategie del nuovo “surge” – l’annunciata “rimonta” capace, come in Iraq, di cambiare il corso della guerra.,
Dal fronte “americano” il racconto si trasferisce a quello italiano per documentare le operazioni e le campagne rimaste a lungo “segrete” del nostro esercito. Per la prima volta vengono seguite e raccontate le difficili missioni degli incursori della Task Force 45, l’unità d’elite del nostro contingente composta esclusivamente da forze speciali. Dai racconti dei piloti ai comandi degli elicotteri d’assalto Mangusta emergono le insidie di una guerra spietata e senza certezze. Il libro descrive poi le battaglie combattute nello sperduto fortino di Bala Mourghab, al confine con il Turkmenistan, e nella base di Delaram, all’estremo sud del deserto di Farah dove piccole unità del nostro esercito fronteggiano continui attacchi degli insorti.
Da questi reportage al fronte si sviluppa la riflessione sulle priorità e sulle strategie indispensabili per uscire a testa alta dal conflitto. La storia delle ingloriose ritirate afghane, da quella inglese del 1842 fino a quella sovietica dell’89, è lì a ricordare che in Afghanistan vincere sul campo di battaglia è sempre molto difficile. Per assicurarsi una via d’uscita bisognerà offrire al governo di Kabul i mezzi per garantire la propria sicurezza accelerando l’addestramento e lo sviluppo di un nuovo esercito. Per riprendere l’iniziativa bisognerà dividere i talebani, trattare con le fazioni moderate, bloccare l’infiltrazione di Al Qaida, affrontare le ambiguità dell’ “alleato” pakistano. Ma bisognerà anche rispettare le promesse fatte al popolo afghano rilanciando lo sviluppo del paese, bloccando la corruzione e ridimensionando il potere dei signori della guerra e della droga.
Se non sapremo farlo la lotta all’insurrezione continuerà ad essere, per usare le parole di Lawrence d’Arabia, “difficile come mangiar la zuppa con il coltello”.