lunedì 12 aprile 2010


lunedì 12 aprile 2010

Helmand, la provincia dove anche i militari trattano con i talebani

di Gian Micalessin
I tre italiani sono stati arrestati per collusione con i terroristi Ma un generale inglese sostiene che negoziare con loro è inevitabile
«Il negoziato qui è solo questione di tempo, non certo di principio». L’ultimo a dirlo - a gennaio - non è stato Gino Strada, ma il comandante dell’esercito britannico generale sir David Richard spiegando l’inevitabilità - per chi opera nella provincia di Helmand - di negoziare con i talebani. Detto questo, c’è modo e modo di trattare. Emergency - grazie alla disinvoltura con cui mescola spregiudicate attività di denuncia politica e lodevole attività sanitaria – offre più di un pretesto a quanti definiscono autentica collusione i suoi rapporti con i talebani. Certo a Helmand i contatti con gli insorti sono assolutamente all’ordine del giorno. In quella provincia, considerata il cuore della produzione di oppio, non arriva fino al 2006 un solo soldato della Nato. Approfittando di quell’assenza i talebani la trasformano nel trampolino per il ritorno nel Paese.
Le ragioni della scelta sono evidenti. Dopo la sconfitta del 2001 il mullah Omar e quel che resta della dirigenza talebana si riorganizzano intorno alla città pakistana di Quetta, appena a sud del confine con Helmand. A Quetta continua a riunirsi, da allora, la shura (assemblea) talebana che decide le campagne militari e manovra i traffici di droga e armi. E visto che l’oppio è fondamentale per i rifornimenti di armi Helmand diventa il vero Bengodi talebano. Nel 2006 70mila dei 165mila ettari di terreno coltivati a oppio di tutto l’Afghanistan si trovano in quella provincia. «Il raccolto da record di Helmand - scrive quell’anno il Guardian - evidenzia il fallimento delle politiche anti-narcotici occidentali costate due miliardi di dollari dal 2002».
La conformazione della provincia, un dito oblungo che dalla frontiera pakistana raggiunge il cuore dell’Afghanistan, è fondamentale anche per infiltrare armi e uomini nel Paese. Grazie a tutto ciò Helmand diventa il santuario della rinascita talebana. Lì nel 2006 gli insorti scannano 85 maestri e studenti e bruciano 187 scuole. Lì l’anno successivo viene tenuto prigioniero il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo e vengono sgozzati i suoi collaboratori afghani. In quel caposaldo integralista tutti, dall’ultimo coltivatore d’oppio fino ai più importanti capi tribù, sono legati ai talebani e ai loro traffici. Sher Mohammed Akhundzada, il governatore responsabile della provincia fino a quando gli inglesi non ne pretendono le dimissioni, non fa differenza. Amico e alleato del presidente Karzai fin dai tempi dell’invasione sovietica il governatore è un temibile signore della guerra coinvolto nel traffico d’oppio e in decine di sanguinose faide e vendette. Ma è anche il perfetto capo tribù afghano, un leader corrotto e spregiudicato pronto a combattere i talebani con i loro stessi sistemi e a negoziare con loro ruoli e competenze territoriali. Così quando nel 2006 i soldati inglesi della Nato sbarcano nel nord la situazione si rivela completamente fuori controllo.
Il tentativo di assumere il controllo della provincia con la forza si dimostra inutile e costa ai britannici 270 morti in quattro anni di duri combattimenti. Neppure la poderosa doppia offensiva lanciata grazie all’intervento dai marines nel 2008 e nel 2009 riesce a garantire il controllo della provincia. «Questo è un territorio impossibile, dove fino a quando non ti sparano addosso non sai mai quali siano gli amici e quali i nemici», mi spiegava nel 2008 il capitano Sean Dynan al comando di una compagnia di marines impegnata nel sud di Helmand. E gli ufficiali britannici, come il colonnello Alan Richmond comandante di un’unità nel distretto di Garmsir, sono i primi ad ammettere che i contatti con i talebani sono assolutamente all’ordine del giorno. «Nelle shure di villaggio a cui ho partecipato c’erano sicuramente dei talebani, sono sicuro - ricordava il colonnello in un’intervista - di essermi seduto accanto a loro più di una volta».

lunedì 29 marzo 2010

AFGHANISTAN, ULTIMA TRINCEA
La sfida che non possiamo perdere
di Gian Micalessin
Introduzione e contributi di Fausto Biloslavo
Boroli Editore - 190 pagine - € 14



La Nato sarà in grado di portare a termine la sua missione in Afghanistan? L’America di Barak Obama riuscirà a ribaltare le sorti del conflitto? Siamo ancora in tempo per riconquistare la fiducia di un popolo e bloccare il ritorno dei talebani? Che guerra combattono i nostri militari, quali rischi corrono?
Per rispondere a questi interrogativi due inviati italiani tornano in Afghanistan, 25 anni dopo il loro primo reportage al fianco dei guerriglieri anti sovietici. Ma il punto di vista -in questo libro scritto da Gian Micalessin grazie anche ai contributi di Fausto Biloslavo - è diverso. I due inviati visitano gli avamposti dei marines nella provincia di Helmand, raccontano le loro battaglie, li seguono nei villaggi dove si nascondono i talebani e dove i militari americani sperimentano tattiche e strategie del nuovo “surge” – l’annunciata “rimonta” capace, come in Iraq, di cambiare il corso della guerra.,
Dal fronte “americano” il racconto si trasferisce a quello italiano per documentare le operazioni e le campagne rimaste a lungo “segrete” del nostro esercito. Per la prima volta vengono seguite e raccontate le difficili missioni degli incursori della Task Force 45, l’unità d’elite del nostro contingente composta esclusivamente da forze speciali. Dai racconti dei piloti ai comandi degli elicotteri d’assalto Mangusta emergono le insidie di una guerra spietata e senza certezze. Il libro descrive poi le battaglie combattute nello sperduto fortino di Bala Mourghab, al confine con il Turkmenistan, e nella base di Delaram, all’estremo sud del deserto di Farah dove piccole unità del nostro esercito fronteggiano continui attacchi degli insorti.
Da questi reportage al fronte si sviluppa la riflessione sulle priorità e sulle strategie indispensabili per uscire a testa alta dal conflitto. La storia delle ingloriose ritirate afghane, da quella inglese del 1842 fino a quella sovietica dell’89, è lì a ricordare che in Afghanistan vincere sul campo di battaglia è sempre molto difficile. Per assicurarsi una via d’uscita bisognerà offrire al governo di Kabul i mezzi per garantire la propria sicurezza accelerando l’addestramento e lo sviluppo di un nuovo esercito. Per riprendere l’iniziativa bisognerà dividere i talebani, trattare con le fazioni moderate, bloccare l’infiltrazione di Al Qaida, affrontare le ambiguità dell’ “alleato” pakistano. Ma bisognerà anche rispettare le promesse fatte al popolo afghano rilanciando lo sviluppo del paese, bloccando la corruzione e ridimensionando il potere dei signori della guerra e della droga.
Se non sapremo farlo la lotta all’insurrezione continuerà ad essere, per usare le parole di Lawrence d’Arabia, “difficile come mangiar la zuppa con il coltello”.

sabato 8 agosto 2009

Le immagini della Folgore in azione a Bala Mourgab




Foto di Enzo De Canio

"COMBAT CAMERA FOLGORE"

IL REPORTAGE CON I PARA' ITALIANI A BALA MOURGAB


BALA MOURGHAB (Afghanistan nord occidentale) – Il Lince arranca sul trituro di creta e sassi, sbuca dalla montagna, s’infila tra muretti d’argilla e fango, solleva nubi di polvere in un nulla spettrale dove gli umani sembrano svaporati nella fornace del mezzogiorno. Siamo i primi della colonna e il caporal maggior scelto Ezio Picone non vuole sorprese “Attenzione a tutta la maglia non vedo anima, distanziamoci, mitraglieri con gli occhi ben aperti”. Il caporale Alessandro Iosca lassù in torretta non se lo fa ripetere. Era qui ad Akazai il 21 maggio. E’ stato il primo ferito delle oltre quindici battaglie combattute intorno alla base avanzata di Bala Mourghab, un’oasi verde, 265 chilometri a nord di Herat nel cuore di Badghis, la più settentrionale delle quattro province a comando italiano. Alessandro tiene di mira i vialetti, occhieggia i pertugi d’argilla, misura ogni metro di questo labirinto di fango calcinato dalla calura. I suoi colleghi tengono sotto tiro i canali d’irrigazione rinsecchiti usati dai talebani come trincee o cunicoli d’avvicinamento. La sua mente rimacina le immagini di due mesi fa. “Arrivavamo da Herat con una colonna lunghissima pensavamo di essere alle fine del viaggio, ma qui dentro Akazai, a due chilometri dalla base, ci ritroviamo nelle sabbie mobili, le strade sono tutte allagate trasformate in sabbie mobili grazie all’acqua dei pozzi costruiti con gli aiuti internazionali, poi mentre cerchiamo di uscire dal fango ci piove addosso l’inferno”. Per quella colonna impantanata l’inferno è un uragano di colpi di mortaio, di razzi anticarro e raffiche di mitraglia. “Ricordo vampate, esplosioni, nubi di polvere, rovesci di proiettili da dentro le case, salve di razzi anticarro che prima esplodono in aria inondandoci di schegge e poi s’avvicinano colpendo il camion davanti e la parte bassa della mia torretta. Sento un colpo di frusta, chiudo gli occhi, li riapro, sono intero, sento solo il braccio sinistro un po’ intorpidito e un pulviscolo di schegge sulla piastra del giubbotto allora rimetto in posizione la mitragliatrice, rifaccio fuoco”. Cinque minuti dopo dal braccio sale una scarica di dolore vero. “Abbasso lo sguardo dal mirino, il sangue cola sull’avambraccio, la mimetica ha cambiato colore è umida, calda, appiccicosa. Urlo di tirarmi giù ma solo un’ora dopo quando in infermeria ripuliscono sangue e sporcizia capisco tutto. Un proiettile è passato da una parte all’altra del braccio, quando lo vedo quando ricordo le schegge all’altezza del cuore mi alzo cado svenuto”. Meno di tre mesi dopo Alessandro è di nuovo qui, nel luogo del suo battesimo di fuoco e sangue. Qualcosa però è cambiata. Donne e anziani si sporgono dagli alveari d’argilla, sbirciano dai muretti. I bimbi invadono i viottoli, si rincorrono attorno ai blindati allungati nel viottolo di Akazai. Sotto gli sguardi prima sorpresi, poi attoniti del capitano Girolamo Bufi, 33enne comandante della compagnia Linci del 183mo battaglione Folgore, Haji Amin Ullah Haq, uno degli anziani del villaggio in turbante e barba bianca avvicina i militari, li invita per un te. “Mai vista robe del genere mormora il capitano - qui ci hanno sempre sparato addosso”. Haj Amin Haq spiega “Ora è diverso, c’è la tregua la gente è stufa della guerra vuole votare alle presidenziali , abbiamo chiesto ai talebani di lasciare queste zone e all’esercito afghano di restituirci le case che avevano occupato, voi italiani non avete nulla da temere”. La Nafaq la tregua, come la chiamano gli afghani, non suscita grandi entusiasmi nel flemmatico colonnello Marco Tuzzolino, un 45 enne ufficiale di origini siciliane al comando del 183mo reggimento Folgore e della base di Bala Mourgab. “I fatti qui parlano chiaro dalla battaglia di Akazai del 21 maggio abbiamo avuto più di 15 grossi scontri a fuoco. Per appoggiare i soldati governativi e i nostri uomini abbiamo impiegato per la prima volta dalla seconda guerra mondiale i mortai da 120 millimetri, abbiamo avuto dodici feriti tra i nostri uomini e in una sola battaglia abbiamo visto catturare e uccidere 15 soldati afghani. L’ultimo attacco a colpi di razzi l’abbiamo subito il 28 luglio intorno Doi Shuri mentre la “nafaq” era già in atto. Io non ho concordato nulla con nessuno...gli accordi riguardano gli afghani i miei uomini sono semplicemente in pausa operativa”. Le cautele del comandante diventano ferite sanguinanti quando parli con i suoi ufficiali e con i suoi uomini. Il suo braccio destro il 42enne tenente colonello Roberto Trubiani, un super veterano reduce da Bassora dove ha servito come ufficiale aggregato con gli inglesi, dimentica gli orrori del 29 maggio. “Alle cinque di mattina gli afghani del primo Kandak (battaglione) sono rimasti tagliati in due dagli insorti mentre attaccavano le colline a est di Bala Mourgab, per tentare di salvarli abbiamo usato per la prima volta i mortai da 120 millimetri, abbiamo combattuto per cinque ore ma non c’è stato nulla da fare quindici soldati afghani sono caduti nelle loro mani sgozzati, decapitati e dati in pasto ai cani. Quando abbiamo recuperato i loro cadaveri abbiamo reso gli onori a dei sacchi mezzi vuoti”. Per comprendere i dubbi dei comandanti italiani basta uscire dalla base, attraversare il fiume Mourghab, spingersi nell’abitato. Il territorio sotto controllo governativo non si spinge oltre due chilometri dal bazar. Lì nel quartiere di Gundham, oltre il posto di blocco tenuto da parà italiani e soldati afghani sventola la bandiera bianca talebana con i versetti del corano. Lì il 10 giugno il tenente Lorenzo Ballin si ritrova nel mezzo in un’imboscata, aggira al nemico e dopo due ore di battaglia guida al contrattacco i suoi parà, costringe i talebani a ritirarsi. Il giorno dopo sfiora la morte cadendo da una torretta di guardia e torna a casa con entrambe le braccia fratturate. Nella zona nord est della cittadina il 24 giugno il caporal maggiore Linda Mei, una 27enne mortaista del plotone Pegaso si trova a difendere un compagno colpito alla testa, altri tre feriti e un mezzo in fiamme. “In quei momenti non hai paura non pensi a niente, ti muovi automaticamente, pensi solo a dare una mano ai tcolleghi”. Ma nella mente di tutti questi ragazzi della guerra reduci da tre mesi di combattimenti c’è la consapevolezza di aver giocato un ruolo anche in quella che gli afghani chiamano “nafaq” e il comandamte Tuzzolino “pausa operativa”. Una consapevolezza che il tenente colonnello Marco Trubiani sintetizza in poche parole. “Gli insorti pensavano di metterci paura chiamavano i telefoni della base e ci sfidavano ad affrontarli in campo aperto. Noi non abbiamo mai mollato. Abbiamo seguito i nostri alleati afghani, li abbiamo sostenuti e quand’è stato necessario abbiamo picchiato duro badando bene a non colpire i civile. Due mesi dopo sono i talebani a ritirarsi. A conti fatti verrebbe da dire che la Folgore gli ha dato una lezione”.

sabato 25 aprile 2009

VITTORIO EMANUELE PARSI PARLA DI "AFGHANISTAN ULTIMA TRINCEA" SU "LA STAMPA TUTTOLIBRI"


Un reportage come quelli di una volta e, contemporaneamente,un'analisi serratache spiega con lucidità che cosa è in gioco in Afghanistan: questa è la sintesi del bel lavoro di Gian Micalessin, Afghanistan,ultima trincea. La sfida che non possiamo perdere, che fin dal titolo non lascia adito a dubbi circa la tesi di fondo. Un libro quanto mai tempestivo, oltretutto, uscito poche settimane prima che il viaggio europeo di Obamae le sue richieste (sostanzialmente inascoltate) agli alleati europei di ottenere un maggior apporto di truppe combattenti ha riacceso i riflettori dei grandi media nazionali su una guerra troppo spesso dimenticata. Gian Micalessin è uno dei migliori giornalisti di guerra italiani ed europei: free lance che collabora con Il Giornale, conosce l'Afghanistan comepochi altri. Nel 1983, ventitreenne,con due amici triestini, Fausto Biloslavo (che ora scrive l’introduzione) e Almerigo Graz, Micalessin parte per l'Afghanistan occupato dall'Urss e firma il primo reportage sulla resistenza antisovietica. Il sodalizio professionale e di amicizia dei tre «muli» triestini continua tuttora, dimostrandosi capace di sconfiggere persino la morte di Almerigo, ucciso inMozambico nel 1987, mentre filmavauna battaglia tra ribelli e forze governative.
Il libro di Micalessin è innanzitutto un libro ben scritto, un gran bel lavoro da inviato speciale,
in grado di calare immediatamente il lettore nella realtà della guerra afgana, fatta di confusione, sudore, paura e morte, come tutte le guerre. Pagina dopo pagina, partendo dal vivido racconto dell'ennesimo assaltoa Fort Apache South, la «Fortezza Bastiani» dei Marines nell' Helmand, ultima frontiera della presenza occidentale in Afghanistan,Micalessin ci conduce
nel tempo e nello spazio apparentemente immobili degli altopiani incuneati tra Pakistan e
Iran, accostando lo stile serrato del reportage alla ricostruzione di un quadro analitico e interpretativo molto ben delineato.
Il lettore si troverà così fianco di Vincenzo, ufficiale della Task Force 45 (fatta di «Parà» e «Incursori della Marina») nella battaglia di Farah, odel tenente Perna del «Battaglione
Trieste» nell'assedio di Bala Mourghab. E «scoprirà» così, che gli italiani in Afghanistan
combattono, e bene, una guerra che è stata a lungo, e ancora in parte resta, «clandestina » per motivi di opportunità politica, ostaggio dell'ipocrisia e dei tabù della politica italiana.
Senza indulgere in nessuna compiaciuta retorica guerresca, ma chiamando le cose con il loro nome (la morte morte e il valore valore), Micalessin riesce a raccontare l'asprezza del conflitto evitando moralismi e grandguignol. Nel farlo ci dimostra come, dal punto di vista militare, la sfida afgana sia alla portata delle capacità europee, e come sarebbe fatale, innanzitutto per l'Europa, perdere una guerra che invece si può, e si deve, ancora vincere. In un coro di rassegnato e disinformato piagnisteo che descrive quella afgana come una battaglia già irrimediabilmente compromessa, il libro di Micalessin argomentain maniera documentata e partecipela tesi contraria: la guerra richiederà sforzi prolungati,una strategia politica volta a individuare e sfruttare le divisioni interne al composito fronte talebano, la mano ferma con Karzai e l'ambiguo ma determinante «alleato» pakistano, e la capacitàdi nonfarsi intrappolare dalle manovre iraniane.Mapuò ancoraessere vinta.
Nel suo far piazza pulita dei tanti luoghi comuni e dello «stupidario» che la circonda, Micalessin sottolinea come non esista una soluzione politica della guerra afgana che possa aggirare la necessità di continuare a impegnare anche sul campo le milizie talebane, e che la stessa «afganizzazione» del conflitto passa per unsurge militare e per un impiego migliore e più coordinato delle truppe combattenti, l'efficacia della cui azione è troppo spesso intralciata (quando non vanificata) da caveat di impiego forse comprensibili nella povera logica della politica romana, ma inaccettabili e devastanti tra le gole e i deserti dell' Afghanistan, tra chi rischia la vita tutti i giorni per proteggere la sicurezza di noi tutti a migliaia di chilometri da casa.

giovedì 12 marzo 2009

giovedì 26 febbraio 2009

L'introduzione di Fausto Biloslavo per "Afghanistan, ultima trincea"


Gian e Fausto davanti ad una postazione dei mujaheddin nella valle di Giagni nel settembre 1983

I proiettili fischiavano dappertutto, ma Jalaluddin Haqqani sembrava non farci caso. Nella valle afghana di Urgun, vicino al confine pachistano, un fortino dimenticato dei governativi veniva bersagliato dai mujaheddin. Mulawi Haqqani, barbone nero, occhi di pece, turbantone pasthun e mitra catturato ai sovietici a tracolla guidava l’attacco. In piedi, in mezzo alla baraonda della battaglia, spiegava a tre giornalisti, appiattiti a terra tra la pioggia di pallottole, come avrebbe cacciato l’Armata Rossa dall’Afghanistan. Nel 1983 Haqqani era un beniamino della Cia finanziato dai paesi arabi. Un quarto di secolo dopo il leggendario comandante combatte ancora. Con il figlio Sirajuddin è uno dei nemici più temibili della Nato nel disgraziato paese al crocevia dell’Asia. Dalla sua base nella zona tribale pachistana è accusato di aver organizzato i più clamorosi attentati del 2008. Come l’attacco suicida al Serena, l’hotel a cinque stelle di Kabul e il tentativo di far fuori il presidente afghano Hamid Karzai a fine aprile.


Ad Urgun, nel 1983, Almerigo Grilz, Gian Micalessin, ed io abbiamo vissuto il nostro battesimo del fuoco. L’inizio di una vita spericolata con il giornalismo di guerra nel sangue. Non potevamo saperlo, ma questo libro è nato in quel primo reportage in Afghanistan, nell’estate di venticinque anni fa. Almerigo ci ha lasciato ucciso in Mozambico il 19 maggio 1987, mentre filmava una battaglia fra ribelli e governativi. Gian ed io abbiamo voluto tornare assieme in Afghanistan, lo scorso agosto. Non più travestiti da afghani entrando clandestinamente dal Pakistan con i mujaheddin anti sovietici. Questa volta siamo tornati dall’altra parte della barricata, quella della Nato. Appesantiti dai giubbotti antiproiettile, dagli elmetti e un po’ dall’età. In prima linea come sempre: al fronte più a sud, con i marines e poi nei fortini dei soldati italiani.

Gian e Fausto durante un guado durante il primo reportage del 1983.

“Afghanistan ultima trincea”, di Gian Micalessin, non è solo la storia di una guerra trentennale. E’ la storia dei ragazzi, americani e italiani, che oggi combattono sputando sangue e sudore è la storia degli afghani, semplici miliziani o comandanti leggendari, tagliagole e disgraziati civili, che abbiamo incontrato.
“Afghanistan ultima trincea” è anche la nostra storia, iniziata 25 anni fa, a Trieste, con l’Albatross Press Agency un’agenzia di scapestrati free lance. Volevamo girare il mondo, raccontare i conflitti e guadagnarci la pagnotta. Almerigo vendeva libri, Gian consegnava rotoli di carta igienica ed io alzavo la sbarra ad un campeggio di Grado. Il nostro unico scopo era raccogliere un piccolo gruzzolo e partire per l’Afghanistan. Il paese invaso dall’Armata Rossa ci aveva fatalmente attratto, come il Vietnam fece con la generazione precedente di inviati di guerra.


Gian stremato da fame e dissenteria al termine
del primo reportage nel settembre 1983

Nel 1983, quando il portellone dell'aereo atterrato a Karachi si spalanca veniamo investiti da una terribile afa, che ci toglie il fiato. E' il benvenuto in Pakistan. Dalla città portuale prendiamo un treno che porta ancora gli stemmi britannici della regina Vittoria. Inizia così un viaggio nel passato, con i pakistani ammassati sui tetti delle carrozze trainate da una locomotiva sbuffante a vapore, che avanza nelle zone aride del sud.
A Peshawar, crocevia di mujaheddin e spie vicino al confine con l'Afghanistan, il caldo è torrido. L'albergo che ci possiamo permettere, in compagnia degli scarafaggi che lo infestano, ha un'inutile pala coloniale come ventilatore.
Dopo innumerevoli contatti clandestini, preghiere e arrabbiature, i mujaheddin si convincono a portarci oltre confine. L'unico sistema è vestirsi come loro, con tanto di turbante in testa. Seguendo una colonna di muli, carichi di armi e munizioni, passiamo in piena notte il sonnolento posto di frontiera di Turi Mangal. Attraversando cupe foreste incendiate dalle cannonate non capiamo se stiamo vivendo un incubo o un sogno. Siamo finalmente in Afghanistan, ma non sarà una vacanza. Abbiamo davanti centinaia di chilometri a piedi e talvolta a cavallo, fra i monti e pietraie afghane, dove il caldo soffocante di giorno ed il gelo di notte ti fanno schiattare. Per portare a casa la pelle ed il servizio, fra assalti dei mujaheddin e bombardamenti sovietici, vale un solo motto: marcia o muori.


Gian durante il reportage con i marines agosto 2008

"Why not?", perché no, ripete sempre Almerigo anche nelle situazioni più difficili, anche quando, a Giagni, veniamo sorpresi da un improvviso attacco aereo sovietico con elicotteri e caccia, che piombano da tutte le parti. Mentre le alte colonne di fumo si alzano dalle esplosioni lui riprende tutto, in piedi tra le esplosioni. Lo spostamento d'aria provocato dallo scoppio di una bomba rischia di travolgerlo,
ma il filmato andrà in onda in prima serata sulla tv americana Cbs.
"Why not" ci ha portato a viaggiare in mezzo mondo raccontando le guerre, anche dopo avere perso Almerigo, una parte di noi.
L’Afghanistan ti rimane nel cuore o lo cancelli dalla memoria. Venticinque anni dopo Gian ed io ci siamo tornati assieme, come in un anniversario non scritto. Questa volta utilizzando gli elicotteri come taxi per raggiungere gli avamposti dei marines nella provincia di Helmand. Poi, però, quando ti ritrovi a scarpinare a piedi con le pattuglie di ragazzotti venuti da oltreoceano, vale sempre il vecchio motto: marcia o muori. I marines sono addestrati ad uccidere, ma di piastrine di riconoscimento ne portano due. Una al collo e una fra i lacci degli stivali da deserto. “Così se saltiamo su una trappola esplosiva riconoscono i pezzi del nostro corpo” spiega uno di loro.
“Afghanistan, ultima trincea” racconta un conflitto spietato, dove l’unica arma decisiva è conquistare i cuori e le menti degli afghani.

Nel mare di sabbia dell’Afghanistan occidentale abbiamo navigato a bordo dei “mostri”, come i talebani chiamano i “ Lince” dei nostri corpi speciali. Legato come un pilota di Formula Uno ti spezzi la schiena, ma sono blindati “salvavita” se finisci in un’imboscata o pesti una mina. Nel fortino di Bala Mourghab i soldati italiani ci raccontan ole battaglie combattute con le unghie e con i denti per difendere i ruderi di un ex cotonificio. Prima di loro c’erano stati i sovietici e la leggenda vuole che siano finiti sgozzati.
Questo libro racconta la guerra degli italiani, una guerra che fino ad oggi era un tabù. Per troppo tempo ci hanno raccontato un Afghanistan dove i nostri soldati distribuivano caramelle ai bambini. Invece i nostri ragazzi combattono una guerra, nel nome di una missione di pace. “Afghanistan ultima trincea” racconta questa verità nascosta sulla quale solo ora si apre uno spiraglio. Grazie all’accesso alla prima linea concesso dal Ministero della Difesa, dopo anni di notizie ovattate. Una verità che va raccontata agli italiani per spiegare cosa ci facciamo laggiù. E comprendere l’impegno ed il sacrifico dei nostri soldati. Dalla ridotta di Delaram, quando la torretta più alta, dove sventola il tricolore, viene investita dallo spostamento d’aria del primo razzo che piomba a una cinquantina di metri. Al caporal maggiore di Caserta, che nel fortino sotto attacco di Bala Mourghab si attacca alla mitragliatrice Browning. E spara a raffica contro i talebani nel suo battesimo del fuoco. Fino ai piloti degli elicotteri d’attacco Mangusta che piombano dal cielo come falchi, ma pensano due volte prima di tirare il grilletto.
“Afghanistan ultima trincea” è un libro lungo 25 anni, su una guerra apparentemente senza fine.
Dicembre 2008